Reperebilità notturna del lavoratore: non è lavoro straordinario

Reperebilità notturna del lavoratore: non è lavoro straordinario

'Reperebilità notturna del lavoratore: non è lavoro straordinario'
Reperebilità notturna del lavoratore: non è lavoro straordinario

Con la sentenza n. 32418 del 22 novembre 2023, la Corte di Cassazione ha precisato che le ore di reperibilità notturna non vanno pagate con le maggiorazioni contemplate per il lavoro straordinario, bensì con un’indennità, in quanto il lavoratore in quel lasso di tempo non esercita alcuna effettiva attività lavorativa.

IL CASO

I giudici d’appello confermavano la sentenza del Tribunale di rigetto delle domande di alcuni lavoratori lavoratori, vigili del fuoco presso una base militare. Le domande azionate erano volte a ottenere la condanna del datore di lavoro alla modifica della turnazione di lavoro e alla corresponsione delle maggiorazioni previste per il lavoro straordinario per le 8 ore di prestazione notturna svolte per ogni turno di lavoro, con detrazione dell'indennità di pernottamento percepita, previa declaratoria di nullità degli artt. 18 e 54 delle Condizioni di impiego (Normativa per il personale civile non statunitense delle FF. AA. USA in Italia, stipulato con le rappresentanze sindacali ed assimilabile, per quanto qui rileva, a contratto collettivo nazionale di lavoro). I giudici di secondo grado ritenevano non fondata la rivendicazione degli appellanti, nel senso che tale pernottamento sul luogo di lavoro, remunerato con indennità di pernottamento, dovesse essere considerato orario di lavoro effettivo, e, contrariamente, ritenevano si trattasse di periodo di riposo intermedio.

LA CENSURA

I lavoratori proponevano ricorso in Cassazione deducendo la nullità della sentenza impugnata, ex art. 360, n. 4, c.p.c., per violazione e falsa applicazione dell’art. 1 d. lgs. n. 66/2003, ed erroneità e contraddittorietà della motivazione della sentenza, relativamente all'interpretazione della nozione di orario di lavoro operata dalla Corte distrettuale, che aveva qualificato il pernottamento presso la base militare in termini di disagio e non di orario di lavoro, anche in relazione ad altri contratti collettivi (non prodotti) e alla giurisprudenza dell’Unione europea in materia. I ricorrenti asserivano che, in base ai principi espressi dalla Corte di Giustizia UE, i periodi di reperibilità, anche senza permanenza sul luogo di lavoro, devono essere qualificati come orario di lavoro; a maggior ragione, se il lavoratore è obbligato alla presenza fisica sul luogo indicato dal datore di lavoro, manifestando una sostanziale disponibilità nei confronti di quest’ultimo, al fine di intervenire immediatamente in caso di necessità. Inoltre, evidenziavano che, secondo la nozione UE, la definizione di orario di lavoro va intesa in opposizione a quella di riposo, con reciproca esclusione delle due nozioni.

LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

I giudici di legittimità confermavano quanto statuito dai giudici di merito, pertanto davano torto ai lavoratori ricorrenti. Gli Ermellini sottolineavano che il periodo di guardia presso il datore di lavoro, deve ritenersi, ai fini della retribuzione, quale periodo durante il quale non viene di regola svolto alcun lavoro effettivo, rispetto ai periodi nel corso dei quali vengono realmente effettuate delle prestazioni di lavoro, e che il mancato pagamento di detta porzione dell’orario lavorativo quale lavoro straordinario, non risulta contrario alla normativa europea e nazionale. L'obbligo di essere fisicamente presente nel luogo stabilito dal datore di lavoro è di natura tale da limitare in modo oggettivo la possibilità del lavoratore di dedicarsi ai propri interessi personali e sociali, pertanto le ore di guardia devono essere ritenute come orario di lavoro. In tali casi, chiarivano i giudici di piazza Cavour, al prestatore di lavoro spetta soltanto un’indennità, piuttosto che le maggiorazioni previste per il lavoro straordinario. Per la Suprema Corte, la ricostruzione dei ricorrenti in termini di dicotomia tra orario di lavoro e periodo di riposo, in base alla normativa dell’Unione europea, come interpretata dalla Corte di Giustizia e come attuata nella normativa italiana, era condivisibile, ma non determinava l’accoglimento della domanda. In virtù di ciò, il Tribunale Supremo rigettava il ricorso dei lavoratori e condannava questi ultimi alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'